Münster, lunedí dell'Angelo 1534

- Non chiamarmi pazzo!
Il pugno mi prende sullo zigomo, vado giú.
Jan è una maschera rossa e bionda di furore.
Mi accascio su una sedia: - Con questo hai dimostrato davvero di essere un saltimbanco miserabile.
Trattiene il respiro, muove qualche passo massaggiandosi le nocche sbucciate, china il capo, dondola. Lo scatto di rabbia si vela subito di disperazione.
- Aiutami, Gert, io non so cosa fare.
Lo guardo affranto: un piccolo sarto piagnucoloso e meschino.
- Aiutami. Sono un verme, aiutami, dimmi cosa devo fare. Perché io non lo so, Gert...
Si siede sullo scranno che è stato di Matthys, guarda il pavimento.
- Hai già fatto abbastanza.
Annuisce: - Sono un coglione, sí, un fottuto coglione. Ma volevano una speranza, li hai visti, volevano che dicessi loro quello che ho detto. Mi volevano cosí e l'ho fatto, li ho resi felici, di nuovo forti.
Resto zitto, inerte, la testa pulsa, la botta, la confusione di queste ore.
Sembra riprendersi appena: - Ieri erano perduti, oggi terrebbero testa a von Waldeck a mani nude! - Cerca il mio sguardo. - Io non sono Matthys. Possiamo ricominciare daccapo, possiamo scopare, eh?, banchettare, fare tutto quello che vogliamo. Siamo liberi, Gert, liberi e padroni del mondo.
Non ho voglia di parlare, non ha senso, ma le parole escono da sole, per me e per il fratellastro pazzo con cui ho condiviso il fetore delle stalle: il nuovo profeta di Münster.
- Quale mondo, Jan? Von Waldeck non è un fesso, i potenti non lo sono mai. Potente aiuta potente, principe appoggia principe: papisti, luterani... non ha alcuna importanza, quando quelli che stanno sotto si ribellano, te li ritrovi tutti uniti, coi loro cavalieri e le armature luccicanti, schierati per caricare. Questo è il mondo là fuori. E stai sicuro che non è cambiato solo perché hai regalato a questa gente il bel sogno di Sion.
Piagnucola come un cucciolo, le dita affondate nei riccioli biondi.
- Dimmelo tu. Tu sai cosa va fatto. Farò quello che mi dici, ma non lasciarmi, Gert...
Mi alzo stordito: - Ti sbagli. Non lo so nemmeno io. Non lo so piú.
Guadagno la porta tra i suoi guaiti infantili.
Lei è lí dietro. Ha ascoltato tutto.
I capelli sono talmente chiari e luminosi da sembrare di platino.
Divara: una veste discinta, che lascia intravedere il corpo perfetto. Nel volto l'innocenza di una bambina, bianca regina bambina, figlia d'un birraio di Haarlem.
Un tocco lieve mi solleva la mano e ci fa scivolare una piccola lama.
- Uccidilo, - mormora appena, indifferente, come parlasse d'un ragno sul muro, o di un vecchio cane moribondo a cui concedere requie.
La vestaglia aperta sul seno turgido, a rivelare il premio. Gli occhi di un blu intenso che incutono terrore fin nelle ossa, i peli ritti come spilli, il cuore a tamburo. Una catasta di cadaveri: visione di ciò che può succedere, l'abisso spalancato da una ragazzina di quindici anni. Devo aggrapparmi al corrimano delle scale, barcollando giú, lontano dalla Venere Dispensatrice di Morte.

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