Il segno.
Striato, fiammeggiante, purpureo, improvviso sale l'arcobaleno dietro le alture e le schiere di Filippo, di fronte agli sguardi rapiti degli umili.
Cancella la paura, un istante, non annunciato da pioggia, cielo terso, stemma del riscatto già dipinto sui nostri vessilli di tela bianca rimediati alla meglio, le insegne del popolo del Signore che si innalzano a salutare lo squillo di tromba celeste che prepara la resa dei conti.
Fragore, trema la terra ovunque, le sue viscere si aprono per inghiottirli, trema la terra, si spacca, avvolge, tuona, erutta la potenza di Dio.
Un pugno grande quanto un uomo mi ribalta a terra, stordito, la faccia nel fango. Mi giro di lato, guidato da un rantolo: un uomo con un grumo di sangue e ossa al posto della faccia. Altri scoppi, la polvere tappa gli occhi, uomini si riparano sotto i cavalli, sotto i carri, dentro le buche che si aprono nella piana. Mi rifugio dietro uno dei pochi alberi vicino a un ragazzo con una scheggia di legno conficcata tra le costole, verde di paura e dolore.
I cannoni continuano a sparare.
La testa del Magister conficcata su un palo. Chiedono. Cosí potrà esserci clemenza.
Malvagio drappello di servi della merda. Luridi bastardi figli di cagna appestata. Non porrete condizioni all'esercito di Dio. Carcasse verminose seccate al sole. Infami falangi delle Tenebre. Sfonderemo i vostri culi con i manici dei picconi. Signore, non abbandonarci ora. Le madri immonde che vi partorirono fottevano con i caproni della foresta. Tornatevene a leccare il culo dei vostri padroni. Perdono, se abbiamo sbagliato. L'inferno aprirà le tremende fauci, le sue viscere vi inghiottiranno. Se abbiamo peccato, la Tua volontà, la Tua volontà sola sia fatta. Sputerà via le ossa, dopo averle spolpate a una a una. Solo l'amore e la parola del Redentore, nel Giorno della Resurrezione degli ultimi. Non avrà pietà delle vostre anime corrotte. Protegga noi la fede in Dio onnipotente.
Magister! Magister! Urla impazzite. Le mie. Voragini di panico tutt'intorno, la fuga del gregge davanti all'orda di lupi.
Lo scorgo davanti a me, inginocchiato, schiacciato a terra, inchiodato come una statua. Su di lui, sento la mia voce gridare sul fragore che si avvicina all'orizzonte: - Magister, Magister!
Gli occhi vuoti, altrove, una preghiera biascicata tra le labbra.
- Magister, per dio, alzati!
Cerco di sollevarlo, ma è come voler sradicare un albero, resuscitare un morto. Mi inginocchio e riesco a rivoltargli le spalle: mi si accascia in grembo. Non c'è piú niente da fare. È finita. L'orizzonte precipita verso di noi sempre piú veloce. È finita. Gli reggo la testa, il petto squarciato dal pianto e dall'ultimo grido, che sputa la disperazione e il sangue al cielo.
È giorno da poco quando cominciamo a prepararci per andare incontro ai principi. Dalle borracce la grappa fa il giro delle gole e cerca di sciacquarle dall'ansia e dalla paura. È giorno da poco, e nella luce incerta e pallida, sotto la nebbia fredda che s'alza piano, lentamente, come di fronte a un sipario, distinguiamo una frangia nera sull'orlo delle colline a settentrione. Nessuno ha dato l'allarme, ma loro sono già qui. Magister Thomas sprona il cavallo, di corsa, da una parte all'altra dell'accampamento, a ravvivare il fuoco della fede e della speranza. Qualcuno urla, alza i forconi, le zappe mutate in alabarde, spara in aria e vomita parole di scherno e di sfida. Qualcuno si inginocchia e prega. Qualcuno resta immobile, come colpito dallo sguardo del basilisco.
Un tratto di carbone intenso si stende lungo la collina a ovest, traccia i contorni sinistri dell'aurora screziata di tenui bagliori. L'esercito di Giorgio di Sassonia si dispone in attesa sulla cresta occidentale. Sagome nere allungate si protendono verso la piana: i cannoni.
Saetta dal nulla di polvere acre e sangue, la belva bardata piomba su un manipolo di sventurati, resi immobili dal terrore, accucciati in preghiera, o rigidi cadaveri in attesa della sentenza fatale. Picca spianata ad altezza di torace, zoccoli e zampe scartano da un corto fosso, trafigge un inerme in ginocchio da parte a parte, travolge un ammasso deforme di arti, ossa, pelle e tela di sacco. Sguaina un'elsa dalla lunga lama sottile, scalcia tra i corpi scuotendo l'armatura, l'abbatte su un cristo che gli si para a destra implorando pietà. Incurva il collo pesante, sbuffa, piega quasi a cadere, recide netto il braccio sinistro, rilancia la corsa verso nuove prede, sale il grido di feroce esultanza.
La polvere scende. Uno squarcio di giorno sul massacro. Solo corpi e grida mutilate. Non un ruggito. Poi li vedo: le schiere si aprono, ferro, picche, stendardi al vento, e la foga trattenuta degli animali che scalpitano. Il galoppo scende dal fianco della collina, fragore di zoccoli e corazze; neri, pesanti e inesorabili come la morte. L'orizzonte ci corre incontro cancellando la piana.
Non è l'urto dell'acciaio a travolgermi, è la presa di Sansone, che solleva il Magister in alto, verso le nuvole e mi trascina per un braccio.
- Alzati, presto!
Elias, un guerriero antico, la faccia nera di terra e sudore, quasi un sogno. Elias, la forza, a indicarmi la direzione, a urlarmi di correre con lui lontano dalla morte.
- Fammi strada ragazzo, ho bisogno di te!
Magister Thomas sulle spalle, e io che ritrovo le gambe.
- Prendi quelle!
Le sacche del Magister, le stringo forte e corro avanti, spingendo i corpi, a capofitto verso l'uscita dell'inferno.
Correre. Fino alla città. Nient'altro. Non un pensiero. Non una parola. La speranza di quell'uomo è infranta, apro la via della sua salvezza.
Quasi alla cieca.
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